Samuele, il Richiesto a Dio
Anna, la moglie di Elkanà, aveva pregato YHWH piangendo molto amareggiata nel santuario di Silo (“Pacifico”, “Pacificatore” “Tranquillità”), perché le donasse finalmente la gioia di un figlio. Se glielo avesse concesso, lei avrebbe potuto alzare serena la fronte davanti a Peninnà, la seconda moglie di Elkanà che la tormentava tutti i giorni irridendo sarcastica la sua sterilità, specialmente durante il pellegrinaggio annuale al santuario (1Sam 1,6-7).
Anna aveva promesso che avrebbe ridonato il figlio a YHWH per tutti i giorni della sua vita come un “consacrato/nāzîr” (1,11). Glielo avrebbe ridonato per sempre (cf. 1Sam 1,9-18).
YHWH ascoltò la preghiera di Anna e, in capo a un anno, ella concepì un figlio dopo essersi unita al suo affezionato marito che non aveva mancato di incoraggiarla con le sue parole di amore: «Anna, perché piangi? Perché non mangi? Perché è triste il tuo cuore? Non sono forse io per te meglio di dieci figli?» (1,8).
L’amore dello uno sposo è la roccia del matrimonio, ma baciare i piedini e mordicchiare le guance e le cosce di un neonato è qualcosa di diverso. Ne è la fioritura, che rasserena il cuore di una sposa diventata mamma…
Anna concepisce il figlio, lo partorisce e, in piena autonomia materna, lo chiama “Samuele/Ascoltato [da] Dio/Šemû’ēl” e ne spiega l’etimologia con una dicitura che non si attaglia perfettamente a quel nome: “Perché al Signore l’ho richiesto/kî mēYHWH še’iltîw”. Una spiegazione che si adatta meglio a Saul che non a Samuele…
Il voto a Silo
Per compiere il pellegrinaggio annuale al santuario di Silo (cf. 1Sam 1,1-2), Elkanà e tutta la sua grande famiglia sale da Ramataim (“Due colline”, ca 500 m. s.l.m.). Con ogni probabilità essa è da identificare con l’odierna Rantis situata sulle montagne di Efraim. È la “Rama di Efraim”, da non confondere con la Rama di Beniamino menzionata in relazione alla strage degli innocenti (Mt 2,18), che corrisponde invece all’odierna Ram (“l’altura”) situata a sud-est di Ramallah, nei pressi del check-point di Qalandia. “Ramataim/Rama di Efraim” è forse da identificare anche con l’Arimatea del NT, patria di Giuseppe che mise a disposizione il suo sepolcro nuovo per accogliere Gesù (Mc 15,43-46; Gv 19,38-39).
Dopo Sichem del tempo dei Patriarchi, Silo (oggi Khirbet Seilun) era diventato con il periodo dei Giudici (1200-1025 ca a.C.) il principale centro religioso della regione, un santuario dove veniva conservata l’arca dell’alleanza (cf. 1Sam 4,3-4). Lì vi rimase per tre secoli e mezzo, finché non fu portata a Kiriat-Yearìm, da dove Davide (1010-970 a.C.) la trasferì a Gerusalemme.
Probabilmente in due giorni di cammino, Elkanà sale a Silo (ca 750 m. s.l.m.) per ca 30 chilometri per sciogliere il suo voto (1,21). Anna, invece, non scioglie adesso il voto che aveva fatto l’anno prima (cf. 1,11). Con decisione autonoma rimane a casa, spiegando al marito che vi salirà col bambino appena sarà svezzato (cioè fino quando non avrà due-tre anni, tempo dello svezzamento che veniva festeggiato con un banchetto, cf. Gen 21,8 Isacco). Allora salirà a Silo con Samuele e là egli potrà vedere il volto di YHWH e là vi rimarrà per sempre.
Una decisione forse inaccettabile alla sensibilità odierna, ma che fa trasparire come Anna sentisse il figlio come vero dono di YHWH, non proprietà propria, ma di YHWH. A lui sarebbe appartenuto per sempre, come suo consacrato, nāzîr.
Una bella lezione anche per oggi. In ogni caso, infatti, anche ai nostri giorni il figlio non è proprietà dei genitori. Essi trasmettono la vita, non la fabbricano né la comprano surrogata come un prodotto qualsiasi. Gli adulti, infatti – qualunque forma di convivenza abbiano scelto di vivere –, non hanno diritto al figlio (checché ne pensi e promulghi la Cassazione italiana). Sono casomai i bambini ad aver diritto ad una famiglia.
Elkanà risponde con serenità alla sua sposa, venendo immediatamente incontro alla sua decisione. Il clima in famiglia si è molto rasserenato fra i due coniugi, nonostante i periodi brutti passati per la difficile convivenza delle due mogli dovuta all’asprezza brutale e perfida di Peninnà.
Hiš’iltihû laYHWH/Lascio che YHWH lo richieda
Quando Samuele fu svezzato, Anna sale a Silo – da protagonista, ma crediamo accompagnata da Elkanà e da tutta la famiglia, anche se non detto esplicitamente – per sciogliere il suo voto (cf. 1Sam 1,11). Porta con sé il bambino, un giovenco di tre anni, 45 chili di farina e un otre di vino per compiere un sacrifico votivo (cf. Lv 7,16 neder; cf. 1Sam 1,11 “lei fece voto/wattidōr neder”). Introduce Samuele nel santuario, mentre egli era ancora un ragazzo (molto piccolo): “il fanciullo era fanciullo/wehannā‘ar nā‘ar”.
I componenti la famiglia immolano il giovenco e poi presentano il bambino al sacerdote Eli. Elkanà agisce unitamente ad Anna e agli altri. Due o tre anni prima Eli aveva sgridato Anna bollandola brutalmente come ubriaca (1,14), ma poi – ascoltata (!) la sua vicenda – l’aveva congedata in pace, augurandole che YHWH venisse incontro alla sua angoscia e all’eccesso del suo dolore (1,15-16), donandole (1,17 yittēn < nātan) ciò che gli aveva chiesto. Anna era tornata a casa, aveva mangiato (cf. invece 1,7-8), e il suo volto cambiò: un volto sereno, disteso, diverso (“il suo volto [di prima] non era a lei più”, 1,18).
Ora – la pensiamo parlare gioiosa, giustamente orgogliosa ma riconoscente – Anna rivolge la parola al sacerdote: le ricorda, per ben due volte, che era venuta al santuario per pregare YHWH, a pregare per questo fanciullo, e lo informa che “YHWH mi ha concesso il (= ciò che) ho chiesto, quello che avevo chiesto da lui/wayittēn YHWH lî ’et-še’ēlātî ’āšer šā’altî mē‘ittô”.
La richiesta (verbo šā’al) domina con tono cadenzato il discorso di Anna a Eli. Anna prosegue verso l’apice del suo dire: “E anch’io lascio che YHWH lo richieda/wegam ’ănōkî hiš’iltihû laYHWH” per tutti i giorni della sua vita. “Lui è richiesto da YHWH/Hû’ šāûl laYHWH”. “Samuele/Ascoltato dal Signore/Semû’ēl” è il frutto di un ascolto da parte di YHWH, che, nella coscienza di Anna, diventa un “Richiesto dal Signore/šāûl laYHWH”.
Il cuore addolorato e angosciato si era aperto alla preghiera. Ricolmato di bene, il cuore ridona al Donatore il frutto della sua grazia, perché sia a servizio non solo della sua famiglia, ma del popolo intero che verrà a pregare nel santuario.
Una madre lascia al Signore il suo figlio. Da lui era arrivato, a lui è offerto, per un bene maggiore.
C’era pace in casa. Elkanà la ricopriva d’amore. Anche Peninnà non era più così sgarbata.
C’era vita in casa. Abbondanza di vita.
Si poteva donare anche agli altri
«… e una donna che aveva al seno un bambino disse: parlaci dei figli.
Ed egli rispose:
I vostri figli non sono figli vostri…
sono i figli e le figlie della forza stessa della Vita.
Nascono per mezzo di voi, ma non da voi.
Dimorano con voi, tuttavia non vi appartengono.
Potete dar loro il vostro amore, ma non le vostre idee…
Voi siete l’arco dal quale, come frecce vive, i vostri figli sono lanciati in avanti.
L’Arciere mira al bersaglio sul sentiero dell’infinito e vi tiene tesi con tutto il suo vigore affinché le sue frecce possano andare veloci e lontane.
Lasciatevi tendere con gioia nelle mani dell’Arciere, poiché egli ama in egual misura e le frecce che volano e l’arco che rimane saldo» (Kahlil Gibran)
Figlio, perché ci hai fatto questo?
Sembra che anche ai tempi di Gesù la croce e la delizia delle famiglie fossero i figli… Alla vigilia della sua maggior età religiosa, Gesù inizia a cercare la sua strada personale nella vita. È colpito dalle preghiere, dalle riflessioni e dalle discussioni che sente a Gerusalemme nell’ambito della vasta zona templare (to hieron). Nelle feste, e specialmente nelle tre che richiedevano il pellegrinaggio a Gerusalemme (ḥaggîm), la popolazione della città poteva quadruplicare, passando da 50.000 a 200.00 presenze.
La confusione è tanta e, nella fiducia verso il clan e i conoscenti, Maria e Giuseppe si incamminano verso casa, ma, giunti a sera, tornano a cercare Gesù a Gerusalemme. Restano “colpiti profondamente/exeplagēgesan” al vederlo in mezzo agli esperti della Torah mentre li ascolta e li interroga con un’intelligenza (synesis) che colpisce tutti i presenti.
Prima o poi la famiglia arriva a incrociare le vite turbinose degli adolescenti. Silenzi prolungati, mugugni e grugniti come risposte, ritirate strategiche in camera, rifiuti ostinati e pressioni indebite e stressanti, sperando che non ci sia dell’altro sotto.
Maria e Giuseppe cercano Gesù dappertutto (anazētountes) e, trovatolo, Maria interroga il figlio sul suo comportamento “irregolare” e dimentico delle conseguenze angoscianti che può produrre in coloro che gli vogliono bene: «Figlio, perché ci hai fatto questo/così? Ecco, tuo padre e io, addolorati ti cercavamo».
Gli allontanamenti volontari stracciano il cuore. I rapimenti sono sopportabili. Cercare i figli nei bassifondi delle città o aspettarli fuori degli antri delle discoteche maleodoranti di “canne” o di peggio richiede di dare fondo alle risorse dell’animo. Ma solo pensarli lontani per studiare o lavorare lontano da casa è una goccia di assenzio che spesso sale ad avvelenare il cuore.
Io devo essere nelle cose del Padre mio
La risposta di Gesù ai genitori è molto “libera”, suona quasi irrispettosa del loro dolore e ai limiti della maleducazione. Ma il Vangelo non vuol essere un manuale di galateo e di “buona educazione”. La ricerca delle vie del Padre su di lui ha rapito per un po’ Gesù fuori del suo mondo. Si è ritrovato in un turbinio di risposte e domande sul volto di quel Dio Padre che sente come Qualcuno che ormai lo vuole tutto per sé. Non è un cibo leggero. È bevanda inebriante, specie per un minorenne.
Gli anni della formazione di base sono finiti, inizia la “specializzazione”. Gesù si sente tutto chiamato irresistibilmente dal piano del Padre: “nelle cose del Padre mio è necessario che io sia/en tois tou patros mou dei einai me” (Lc 2,49).
Gesù non irride il dolore spaesato e angosciato dei suoi genitori. Sa che sono dolori “dell’inferno” (cf. Lc 16,24 il ricco epulone “soffre/odynōmai” “negli inferi/en tōi hadēi” tra i tormenti). Egli interpreta però questo dolore come una sofferenza per le doglie del parto (odynōmenoi < odynō, v. 48).
Maria e Giuseppe devono “generare” di nuovo il loro figlio, farlo nascere a una strada nuova, più precisa, la sua. Non deve essere un dolore infruttuoso, ma fecondo di vita nuova. Non si deve ripercorrere i sentieri interrotti di Israele: «Come una donna incinta (hē ōdinousa = la addolorata) che sta per partorire si contorce e grida nei dolori (epi tei ōdini autēs), così siamo stati noi di fronte a te, Signore. Abbiamo concepito, abbiamo sentito i dolori (ōdinēsamen) quasi dovessimo partorire: era solo vento; non abbiamo portato salvezza alla terra e non sono nati abitanti nel mondo» (Is 26,17-18).
Maria e Giuseppe “non compresero la parola-fatto/ou synēkan to rhēma”, ma avranno “incassato” in silenzio la parola-fatto che Gesù aveva detto loro, mettendoli letteralmente di fronte “a un fatto compiuto”.
Un fatto si impone con la sua evidenza: sul capo di quel ragazzo pendono “le cose di Dio, del Padre suo”.
Lo hanno preso, lo hanno avvolto come lo avevano fatto con Maria dodici anni prima. Giuseppe se lo ricorda molto bene quel periodo. Durissimo. Ma ne sono venuti fuori insieme, loro due, lui e Maria. Ne sono usciti vivendolo nella fede, nella “giustizia”, cercando solo di aderire alla volontà di Dio come si manifestava negli eventi della storia, nelle parole di Dio, nelle Scritture, nelle persone.
Scesero a Nazaret
Si scende di nuovo a Nazaret.
C’è silenzio. Ci sono domande che si possono fare, altre che si possono solo tenere dentro di sé.
Il ragazzo potrebbe non portarne il peso. Papà e mamma forse capirebbero ancora meno, e il loro dolore aumentare.
Torniamo alla normalità. Siamo tutti un po’ troppo agitati.
Ci sarà tempo, d’inverno, per parlare.
Ora è primavera, è meglio guardare i gigli dei campi.
Gli uccelli cercano la loro via in cielo.
Le pianticelle cercano la loro via nella terra.
La famiglia di Maria, Giuseppe e Gesù cercano insieme la loro strada.
Restiamo “sottomessi” a lui, al Santo. Obbediamogli “ascoltandolo da sotto”.
Il Padre ci illuminerà tutti.
Vogliamo essere solo una famiglia tutta sua.
Una “famiglia santa”.
Commento a cura di padre Roberto Mela scj – Fonte del commento: Settimana News