Chi come YHWH?
Della vita di Michea – “Mîkāh”, abbreviazione di “Mîkāyāhû/Chi come YHWH?” – non si sa nulla, eccetto il fatto che proveniva da Morèset, probabilmente Morèset-Gat (1,4), una città della Giudea sud-occidentale, notizia riferita anche da Ger 26,18. Non si conosce il nome del padre (forse perché la sua famiglia non aveva rilevanza sociale), né quale fosse il suo lavoro.
I versetti di apertura del suo scritto inquadrano la sua predicazione al tempo di vari re di Giuda dell’VIII secolo: Iotam (740-736), Acaz (736-716), Ezechia (716-686), un momento di grande difficoltà dal punto di vista politico ed economico.
La morte di Ozia (781-740) combacia con l’inizio dell’espansione militare da parte degli assiri, un tempo di minaccia e di insicurezza di cui si avverte l’eco nel testo di Michea. Il libro è il sesto fra i profeti minori del canone ebraico e il terzo in quello greco della LXX (dopo Osea e Amos).
Fra le varie strutture letterarie proposte ne presentiamo una, quella di Donatella Scaiola, che può essere utile per la lettura dell’insieme del libro e per inquadrare il breve brano letto nella liturgia:
1,1–2,13 Primo invito all’ascolto: 1,1-7 Processo a Samaria e a Gerusalemme; 1,8-16 Il lamento del profeta; 2,1-5 Denuncia della violenza; 2,6-11 Contro i falsi profeti; 2,12-13 YHWH raduna il suo popolo;
3,1 –5,14 Minacce e promesse: 3,1-12 Contro i capi e contro i profeti (3,1-4 Oracolo contro i capi; 3,5-8 Veri e falsi profeti; 3,9-12 Oracolo contro i giudici, i sacerdoti e i profeti); 4,1–5,4 Promesse a Sion (4,1-5 Una promessa per il futuro; 4,6-8 Resto e regno; 4,9-14 Presente e futuro; 5,1-5 Egli sarà la pace; 5,6-8 Rugiada e leone; 5,9-14 Una necessaria purificazione).
6,1–7,20 Ultimo e definitivo invito all’ascolto: 6,1-8 Cosa vuole il Signore? (6,1-5 Popolo mio, che cosa ti ho fatto? 6,6-8 Praticare la giustizia e amare la bontà); 6,9-16 Oracolo di giudizio; 7,1-7 Un drammatico lamento; 7,8-20 Confessione e lode.
Betlemme la piccola
Mi 5,1-5 sembra formare un’unica pericope in cui si pone un parallelismo tra la figura del dominatore dei vv. 1-3 e il soggetto plurale che parla nei vv. 4-5. Il brano sembra richiamare Is 11,1-9, un altro testo che preannuncia una figura regale futura.
Mi 5,1-5 si rivolge a Betlemme di Efrata. Quest’ultimo era originariamente il nome di un clan collegato a Kaleb e situato nelle vicinanze di Betlemme di Giuda (cf. 1Sam 7,12; 1Cr 2,19.24.50). La specificazione di Giuda/Efrata intende distinguerla dalla città di Betlemme situata all’interno del territorio di Zabulon, in Galilea (cf. Gs 19,15). “Efrata/’Eprātāh” significa “quella che porta frutti”, “la fruttifera”, una terra ricca di grano, di olio, di vino e di fichi. Adesso ci si aspetta che essa produca un frutto straordinario, il messia.
“Betlemme di Efrata” è un sintagma attestato solo in Mi 5,1, mentre Betlemme è associata sempre alla storia di Davide (1Sam 16). Efrata compare anche in Rt 4,1; Sal 132,6; 1Cr 2,24.50; 4,4; Mt 2,6, pur citando Mi 5,1, ne modifica il senso. La traduzione greca della LXX sembra considerare Efrata il nome di una persona.
Da Betlemme era partita Noemi con Elimèlech e i figli in cerca di cibo nel territorio di Moab. Noemi vi era ritornata vedova e senza figli, con la sola nuora Rut. Dal matrimonio con il ricco parente prossimo Booz sarebbe nato Obed, che poi generò Iesse, il padre di Davide (cf. Rt 4,13-21; Mt 1,4).
Betlemme è “piccola/ṣā‘îr” tra i clan di Giuda. “Clan” traduce “’elep”. ’Elep è il nome di un’unità sociale che può indicare un clan (cf. 1Sam 10,19), oppure un contingente militare (1Sam 17,18) o indicare il termine numerico “migliaio”. Un particolare: i “seicentomila” israeliti uomini adulti che partirono dall’Egitto per il cammino dell’esodo (Es 12,37) potrebbero quindi essere stati seicento “clan”…
Le origini di Betlemme sono quindi molto umili, pur essendo legata al nome di Davide. Ma Dio si serve di mezzi umili per portare avanti la storia della salvezza. Spesso nell’AT si annuncia che un luogo piccolo produrrà un uomo grande, dalla rovine viene la gloria, la salvezza è legata a un bambino…
Il môšēl
A nome di YHWH, il profeta annuncia a Betlemme che da lei, pur “piccola/giovane/la minore” uscirà per il Signore (innanzitutto!) un personaggio che dovrà dominare, che “dovrà essere un dominatore/governatore/lihyôt môšēl” su Israele. L’oracolo parla di “origini”: potrebbe riferirsi al luogo da cui qualcosa o qualcuno esce o l’oracolo che esce dalla bocca di Dio. Il linguaggio dell’oracolo è velato, per cui il verbo “uscire” può riferirsi all’origine del dominatore, alla sua nascita o a una sua uscita militare. In ogni caso si rimanda a un tempo antico come punto di partenza di tutto, a partire dal quale va interpretata la figura del “dominatore/môšēl”. Egli non viene denominato con la titolatura regale “re/melek”, pur essendo un individuo che si rapporta alla famiglia di Davide o che potrebbe essere lo stesso Davide che riappare. Per il profeta Michea, però, la regalità appartiene a YHWH, per cui il nascituro sarà soltanto un dominatore di connotazione regale, ma non un re vero e proprio come lo si intendeva nell’accezione comune.
Il v. 2 è vago in quanto non si esprime chiaramente chi sia il soggetto (Dio? cf. CEI 2008 e la maggioranza degli interpreti; il “governatore”?) e cosa si intenda con «“li consegnerà/li darà/darà a loro [un re]/ittenēm” finché colei che deve partorire partorirà».
Il contenuto è allusivo, ma attraverso l’uso dell’alternanza fra soggetti singolari e plurali, sembra che Michea alluda a una storia che riguardi il “dominatore” e i suoi fratelli. Si annuncia un periodo di tempo che intercorrerà prima che il resto dei fratelli del “dominatore” ritorni ai figli di Israele, ricongiungendosi ad essi e “combaciando” con loro: la preposizione “‘al” può indicare infatti “sopra” o “accanto”.
Il “dominatore/governatore/môšēl” “starà in piedi/‘āmad” (v. 3) – in posizione di vigilanza, attenzione e custodia – e “pascerà/rā‘āh” con la “forza/‘ōṣ” che gli viene da YHWH e con la “maestà/ge’ôn” del “nome/šēm” – cioè della persona e della sua missione – di “YHWH nostro Dio”.
Tutte le qualità di forza e di gloria del môšēl provengono da YHWH e della sua persona e della sua missione viene sottolineata non tanto la regalità di dominio politico, bellico, giudiziario, quanto la cura “pastorale” perché il popolo abbia cibo, protezione, sicurezza.
Occorre ricordare che queste erano, d’altra parte, le responsabilità che il re aveva in Israele, a differenza dei re coevi circonvicini. Si può confrontare su questo aspetto la splendida pagina sulla “legge del re” di Dt 17,14-20 e quella del Sal 72 circa il re ideale atteso con le durissime parole realistiche sul “diritto del re/mišpaṭ hammelek” pronunciate dal profeta Samuele (1Sam 8,10-22) – contrario all’instaurazione della regalità in Israele – sulle modalità con cui il re si comporterà concretamente nei confronti del suo popolo…
Egli stesso sarà pace!
L’effetto del “governo pastorale” del môšēl, “regale” con modalità nuove, sarà l’abitare (tranquillo, sicuro – anche se non detto esplicitamente) – di Israele in quanto il môšēl “sarà grande/diventerà grande/yigdal”, la sua autorità si espanderà fino ai confini della terra.
L’aspettativa di una guida pastorale ideale, gli effetti della quale si estenderanno a beneficio di tutti i popoli fino ai confini del mondo, allude a una persona di qualità messianiche. Essa sarà inviata da YHWH e, pur connessa alla discendenza regale di Davide in quanto proveniente dallo stesso piccolo borgo di Betlemme di Efrata, avrà un’efficacia di governo benefica su scala mondiale.
Il profeta Michea, inviato da YHWH, prepara con le sue parole l’avvento di Colui che le porterà a compimento. YHWH ispira il “carisma di linguaggio” del profeta che, attingendo alle sue risorse umane illuminate dall’ispirazione divina, annuncia realtà grandi che sorpassano l’universo concreto in cui si trova a vivere.
Il môšēl non solo apporterà vita tranquilla ai suoi fratelli ma costituirà nella sua stessa persona la pace. L’enfasi strozza le parole in bocca al profeta: “sarà questo pace/sarà lui stesso (la) pace/yihyeh zeh šālôm”. Una pace che la protervia bellicosa dell’Assiria non potrà mettere in pericolo. Il suo imperialismo troverà pane per i suoi denti se si proverà a invadere Israele: “noi” metteremo in campo “la pienezza della pastoralità regale/otto pastori” e “quella delle capacità belliche/sette comandanti militari” (v. 4b).
Sotto la guida del môšēl ci sarà la liberazione dall’imperialismo di Assur e la “pace in persona”, che agirà a favore di Israele, sarà un sogno che diventerà una realtà giungendo fino ai confini della terra.
Il Vangelo delle origini
Una fra le possibili articolazioni letterarie del Vangelo di Luca potrebbe essere quella suggerita dall’esegeta Santi Grasso: 1,1–2,52 Il vangelo delle origini di Gesù; 3,1–4,44 I prodromi della sua missione: 5,1–9,50 La sua attività pubblica; 9,51–19,46 In cammino verso Gerusalemme; 19,47–21,38 L’insegnamento gerosolimitano; 22,1–14,53 La sua passione, morte, risurrezione e ascensione.
I due capitoli dei vangelo delle origini di Gesù (Lc 1–2) sono strutturati secondo il procedimento retorico della sygkrisis, cioè della comparazione tra due personaggi, di cui si intende porre in risalto la superiorità dell’uno sull’altro. Abbiamo così, secondo la proposta di F. Bovon: A) 1,5-25 annuncio della nascita di Giovanni Battista; A’) 1,26-38 annuncio della nascita di Gesù; B) 1,39-56 Incontro di Maria ed Elisabetta (con il Magnificat 1,46-56) C) 1,57-80 Nascita di Giovanni Battista: a) nascita (1,57-66; b) saluto 1,67-80 (Benedictus); C’) 2,1-40 Nascita di Gesù, il messia: a) nascita (2,1-21); b) saluto 2,22-40; D) 2,41-52 Gesù al tempio.
Si alzò in fretta
Dopo aver risposto con slancio all’invito dell’angelo a diventare la madre del Figlio dell’Altissimo, Maria, la “Tutta Trasformata dalla grazia”, “si alzò/risorse/anastasa” nella fretta sollecita della carità e nel desiderio di comunicare a un’altra donna, sua parente, l’eccezionale avventura a cui Dio l’aveva chiamata.
La potenza dello Spirito Santo era sceso su di lei ad adombrarla (cf. Lc 1,35 episkiazō) come popolo rinnovato di Dio che si stava creando nel suo cammino di liberazione (cf. episkiazō in Es 40,34), per crearla madre del Santo, del Figlio di Dio (Lc 1,35).
La Tutta Trasformata dalla grazia va a trovare l’anziana cugina Elisabetta (“Il mio Dio è pienezza” < gr. Elisabet <ebr. ’Ĕlîšāba‘), per aiutarla nella sua tarda e prodigiosa gravidanza. Al saluto della giovane parente il bimbo in grembo a Elisabetta ha un movimento brusco di vita, avvertendo la voce nuova e colma di grazia della Vergine Madre.
Nel grembo di Elisabetta si ripete il movimento avvertito da Rebecca nel suo seno quando i gemelli Esaù e Giacobbe si urtavano (eskirtōn) fra loro, facendo presagire la lotta intestina che avrebbe dilaniato gran parte della loro vita. Rebecca si domanda sconsolata cosa le stia succedendo o, forse, “perché vivo?” (Gen 25,22; cf. il disgusto della vita in 26,46; per il verbo skirtaō cf. anche Ger 27[50],11; Gl 1,17; Ml 3,20; Sal 113[114],4).
Il movimento “bellico” di Esaù e Giacobbe è pacificato e unificato nel movimento gioioso e vitale di colui che è venuto per preparare un popolo riconciliato tra padri e figli e ben disposto verso il suo Signore (Lc 1,17).
La cerniera si chiude, congiungendo perfettamente in unità Antico e Nuovo Testamento. Sul bordo dei Testamenti, due madri e due figli si scambiano il testimone della corsa a staffetta della salvezza.
Sul momento Elisabetta viene riempita di Spirito Santo con cui legge umanamente e teologicamente l’avventura in cui Maria è stata introdotta. Elisabetta si era tenuta nascosta misteriosamente per cinque mesi dopo essere stata liberata dalla sua vergogna fra gli uomini. Un comportamento incomprensibile, se non letto teologicamente. In isolamento totale dai vicini, nascosta agli occhi di tutti, Elisabetta non può venire a sapere del concepimento verginale della giovane cugina Maria se non per ispirazione dello Spirito.
Viene a me la madre del mio Signore!
All’entrata di Maria in casa del marito Zaccaria e al sentire il saluto rivoltele personalmente dalla cugina, Elisabetta se ne esce con un forte grido di acclamazione, di meraviglia e di lode nei confronti della cugina per la benedizione di cui la vede ricolmata da parte di Dio.
La profetessa Debora e il generale dell’esercito israelita Barak avevano innalzato la loro benedizione nei confronti della coraggiosa Giaele, donna inerme e sola nella sua tenda, che aveva ucciso con uno stratagemma il grande nemico militare, il generale Sìsara: «Sia benedetta fra le donne Giaele, la moglie di Kheber il Kenita, benedetta fra le donne della tenda» (Gdc 5,24).
Sia benedetta Giaele fra le donne della tenda perché ha salvato la vita di Israele, uccidendo il nemico mortale! Ben più benedetta sia Maria fra (tutte) le donne, la Benedetta e la Tutta Trasformata dalla grazia dell’Altissimo e benedetto il frutto del suo seno, ragione e causa della sua stessa benedizione!
Benedetta sia la Madre del mio Signore (tou kyriou emou). Elisabetta intende il frutto messianico dell’opera signoriale di YHWH nella vita e nel seno di Maria. La Chiesa dell’evangelista Luca vi legge con venerazione la professione di fede nella maternità verginale di Maria nei confronti del suo Figlio Gesù, il Risorto e fatto Signore/Kyrios messianico da Dio Padre. Al proclama di fede degli Undici: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone» (Lc 24,34), i due discepoli di Emmaus avevano infatti risposto narrando «ciò che era accaduto lungo la strada e come lo avevano riconosciuto allo spezzare il pane» (Lc 24,35).
La fede della Chiesa era ormai questa: «Questo Gesù, Dio lo ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. Innalzato dunque alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire», annuncia Pietro subito dopo la Pentecoste (At 2,33).
I “tre mesi” dell’arca
Elisabetta riferisce subito a Maria il movimento di gioia che il bambino (brephos) che si sta ancora nutrendo nel grembo ha fatto nel momento in cui ha sentito il saluto rivolto alla madre. Colui che sarebbe diventato l’araldo del Veniente più Forte, la voce che precedeva il Verbo e la lampada che precorreva solo per un po’ la Luce che veniva nel mondo, avverte la voce potente e mite del Verbo e se ne rallegra come può già nel grembo della madre.
L’amico e paraninfo dello Sposo già si rallegra alla voce dello Sposo (cf. Gv 3,28-29), ne gioisce ancor prima di nascere e inizia già a “diminuire” riconoscendo la voce del suo Signore. La cerniera fra i due Testamenti della salvezza si salda nella gioia sponsale, e non solo per l’inizio del compimento di tante promesse di salvezza pronunciate da YHWH.
Elisabetta proclama la beatitudine assicurata a Maria dal suo Signore a causa della fede che lei ha prestato alle parole di vocazione alla maternità verginale annunciatele dall’angelo Gabriele (cf. Lc 1,26-38). La felicità di Maria sta nella fede entusiasta da lei mostrata verso le parole a lei rivolte dall’angelo inviato dal Signore (cf. Lc 1,38: Avvenga per me secondo la tua parola, lo desidero tanto, lo voglio con tutta me stessa!). Questo ancor più della maternità fisica del Figlio dell’Altissimo, il Messia promesso e atteso da tutto Israele e da tutte le sue giovani figlie…
Elisabetta assicura Maria che in lei ci sarà il compimento perfetto (teleiōsis) delle parole a lei rivolte dal Signore. Il compimento ha un significato attivo (cf. la finale in –is). In Maria ci sarà l’operare attivo di Dio che porterà a perfezione le sue parole nella figlia benedetta di Israele.
Maria si ferma circa tre mesi in casa di Elisabetta (Lc 1,56). Un tempo teologico.
Non pare gentile, infatti, da parte di Maria andarsene proprio mentre l’anziana cugina ha più bisogno, subito dopo il parto (a parte il fatto che altre donne generose l’avrebbero potuta aiutare sia prima che dopo l’evento…!).
I “tre mesi” trascorsi da Maria corrispondono a quelli trascorsi dall’arca dell’alleanza in casa di Obed Edom di Gat (2Sam 6,11). Fattala salire dalla casa di Aminadàb che era sul colle (2Sam 6,3), Davide non si sentì degno di portarla direttamente a Gerusalemme. La fece quindi dirottare in casa di Obed Edom di Gat, dove sostò per tre mesi. Quando fu però riferito a Davide: «Il Signore ha benedetto la casa di Obed-Edom e quanto gli appartiene, a causa dell’arca di Dio» (2Sam 6,12a), egli ruppe gli indugi e la introdusse a Gerusalemme fra danze sfrenate, canti e festa con tutto il popolo. Festeggiamenti che invece costarono a Mikal, la sposa di Davide che lo aveva aspramente criticato per le danze fatte in abiti succinti, la possibilità di avere dei figli da lui (cf. 2Sam 6,11b-23).
Quale arca dell’alleanza nuova, l’alleanza rinnovata, Maria porta tra le montagne di Giuda il suo Signore che rinnova l’unica ed eterna (ex parte Dei) alleanza col popolo di Israele. Colui che è portato dolcemente dall’arca dell’alleanza lo benedice con la sua presenza, in attesa di riscattarlo con la morte e risurrezione e donargli lo statuto della figliolanza piena, la vita di figli di Dio, figli nel Figlio.
Profumo sui monti
Maria è la donna della carità attenta e premurosa.
Una carità che “risorge” e porta vita.
Ancor di più, Maria è la donna che porta in grembo il frutto della sua fede e lo espande come “buon profumo” di Cristo (cf. 2Cor 2,15).
Lei “visita” la cugina Elisabetta.
In verità, lei trasporta quale arca dell’alleanza nuova colui che fin dal suo concepimento espande attorno a se l’inebriante profumo dello Sposo che viene.
«I monti circondano Gerusalemme:
il Signore circonda il suo popolo,
da ora e per sempre» (Sal 125,2).
«Perché voi, montagne, saltellate come arieti,
e voi, colline, come agnelli del gregge?» (Sal 114,4).
«Fuggi amato mio,
simile a gazzella
o a cerbiatto
sopra i monti dei balsami» (Ct 8,14).
Commento a cura di padre Roberto Mela scj – Fonte del commento: Settimana News