Siamo ormai alle soglie del Natale, una festa che ha necessariamente un’impronta femminile. Noi stiamo seguendo in modo libero il Vangelo di Luca proprio secondo un’angolatura particolare: quella delle donne che si incrociano con la storia del protagonista per eccellenza del suo racconto evangelico, il Cristo.
In due tappe – in questo e nel prossimo numero – ricomporremo la presenza della madre di Gesù, Maria. Certo, ci sono due antefatti che la riguardano: l’annunciazione di quella nascita straordinaria e la visita all’altra madre che abbiamo già incontrato, Elisabetta. Noi, però, riserviamo questi due eventi alle rispettive cadenze del calendario liturgico, il 25 marzo e il 31 maggio del prossimo anno.
Seguiamo, dunque, questa giovane incinta che con il suo sposo Giuseppe giunge a Betlemme, la patria del re Davide. Secondo i calcoli cronologici degli studiosi, siamo attorno al 6 a.C., mentre sulla Palestina regnava Erode che morirà nel 4 a.C. e sull’Impero romano Augusto (30 a.C.-14 d.C.), che controllava quest’area attraverso un governatore di stanza in Siria, Quirinio. È noto che l’errore di datazione è imputabile ai calcoli di un monaco della Scizia, Dionigi il Piccolo, ma non è il caso di entrare ora in questa disputa. Sta di fatto che si sta eseguendo uno dei molteplici censimenti che i Romani imponevano ai loro sudditi per ragioni fiscali.
Spesso queste operazioni esigevano che i censiti si registrassero nella sede di origine del loro clan familiare. E così, Giuseppe, «figlio di Davide» (Matteo 1,20), cioè appartenente alla genealogia del celebre re ebraico, è costretto con la sua sposa incinta a scendere dalla regione settentrionale di Galilea fino alla meridionale Giudea, nella «città di Davide chiamata Betlemme proprio perché apparteneva al casato della famiglia di Davide» (Luca 2,4). Si può immaginare come sia stato faticoso questo trasferimento per una donna incinta, ormai prossima a partorire, come era allora Maria.
Appena entrati in Betlemme, ecco l’affannosa ricerca di un’ospitalità, impegno reso dificile dall’affollarsi di altri più o meno reali discendenti di Davide confluiti in quel villaggio per il censimento. Luca sottolinea che quella coppia povera non trovò posto nel katályma.
Questo vocabolo greco ha vari significati possibili: locanda, casa, alloggio, soggiorno, stanza. Prevalente è, però, l’idea della stanza di una casa, come si ha nel racconto dell’ultima cena, quando i discepoli devono chiedere, su indicazione di Gesù, a un cittadino gerosolimitano: «Dov’è la stanza (katályma) in cui posso mangiare la Pasqua con i miei discepoli?» (22,11).
Perciò, è probabile che i parenti di Giuseppe non avessero più a disposizione una stanza per lui e la sposa incinta. Gli offrirono, allora, uno spazio collegato alle residenze di allora, ove erano ospitati gli animali di notte e d’inverno e ove spesso si riuniva la famiglia nelle serate fredde.
È san Girolamo che visse per decenni a Betlemme a evocare questo riparo offerto da una grotta naturale o scavata nella roccia, addossata o inglobata nella casa di una famiglia. Si spiega, così, la mangiatoia che funge da culla per il neonato Gesù. Infatti, come narra Luca, là «si compirono per Maria i giorni del parto e diede alla luce il suo figlio primogenito» (2,7). Ma su questa nascita ritorneremo la prossima settimana, ormai nell’imminenza della solennità del Natale, tenendo sempre puntato il nostro sguardo sulla mamma di Gesù.