Il commento alle letture del 7 Novembre 2018 a cura del sito Dehoniane.
XXXI settimana del tempo ordinario II settimana del salterio
Terminare l’opera
Paolo è in prigione e deve mettere in conto l’eventualità di una condanna a morte. Sgorga spontanea, in questi casi, l’esigenza di voltarsi indietro per fare un bilancio della propria vita. Anche
Paolo lo fa, con la speranza «di non aver corso invano, né invano aver faticato» (Fil 2,16). Dovrà essere la fede dei filippesi, la loro capacità di risplendere come astri nel mondo tenendo salda la parola di vita (cf. v. 15), a rivelare la bontà e la fecondità del suo operato. A preoccupare Paolo non è la sua sorte personale, se vivrà o morirà, ma l’efficacia della sua azione missionaria, i frutti che avrà saputo portare, la perseveranza nella fede che avrà saputo generare nella comunità.
Possiamo tuttavia domandarci in modo più preciso: che cosa significa non faticare invano? Come riuscire a farlo? Una prima risposta la troviamo già nel testo ai filippesi. Occorre essere consapevoli che è Dio a suscitare «il volere e l’operare secondo il suo disegno d’amore» (2,13). Almeno due sono le condizioni evocate da questa affermazione. La prima: non fatichiamo invano quando il nostro agire si fonda sulla chiamata di Dio, anziché sui nostri progetti e autonome iniziative.
Da qui la seconda condizione: non è vano l’operare che rivela e permette di toccare con mano il disegno d’amore del Padre che è nei cieli. La fecondità dell’agire del credente non si misura con il metro dei risultati conseguiti o dei successi riportati, ma sulla sua capacità di rivelare l’amore di Dio, in modo persuasivo e affidabile. Si possono anche ottenere esiti sorprendenti, senza però annunciare e testimoniare l’amore. Oppure, al contrario, ci sono fallimenti che non sono inutili perché comunque manifestano quanto Dio ami il mondo e i suoi abitanti.
Anche questo significa accettare di portare la propria croce dietro a Gesù. La croce designa infatti il fallimento di Gesù, che muore come un maledetto, abbandonato quasi da tutti, con rare eccezioni. La sua vita sembra non aver prodotto molti frutti. Pare che egli abbia corso invano e invano faticato, per riprendere il linguaggio paolino. Eppure, è proprio quel fallimento a manifestare l’amore di Dio e la sua inesauribile fecondità. Dalla croce scaturisce la vita perché prima ancora scaturisce l’amore, che ci perdona, ci salva, ci libera, ci raduna.
Prendere la propria croce assume allora questo significato: si tratta di vivere ogni realtà, anche quelle più fallimentari e deludenti, senza perdere la libertà e la disponibilità a trasformarle in luoghi in cui l’amore viene vissuto e può manifestarsi. In cui può essere da altri riconosciuto. Paolo è in prigione, la sua vita sembra votata all’insuccesso, eppure non cessa di amare il Signore e i filippesi, cercando il loro vantaggio, non il proprio. Una seconda risposta all’interrogativo iniziale ci viene consegnata da Luca.
Gesù, narrando le due piccole parabole del costruttore della torre e del re che parte in guerra, chiede di calcolare bene se si posseggano le forze per arrivare fino in fondo. Occorre evitare il rischio di ritrovarsi, prima o poi, senza le risorse necessarie per portare a termine quanto iniziato. Sin qui tutto è chiaro. La parola di Gesù sembra avere questa volta una chiarezza invidiabile, che spesso non troviamo in altre pagine. Eppure, la conclusione cui Gesù giunge ci sorprende, ci interroga, ci costringe a ripensare i nostri criteri di giudizio, a rivedere il metro con cui valutiamo il nostro agire. Afferma infatti il Signore: «Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo» (Lc 14,33).
È paradossale: le due parabole che precedono, sembrano sollecitarci a calcolare se abbiamo le risorse necessarie per arrivare fino in fondo; la conclusione ci ricorda invece che il vero calcolo da fare non concerne i mezzi di cui disponiamo, ma la disponibilità a privarcene, per imparare a confidare non in noi stessi, ma in colui che suscita il nostro volere e il nostro operare. Possiamo aggiungere: è sempre lui a condurlo fino al termine, a portarlo al suo pieno compimento.
Signore Gesù, noi desideriamo seguirti con gioia e dedizione, anteponendo il tuo amore a ogni altro bene. Soltanto il primato del tuo amore, infatti, dona i giusti contorni e proporzioni a ogni altro affetto, a ogni nostra relazione. Ed è sempre il tuo amore a colmare il vuoto dei nostri fallimenti, portando a compimento l’opera che tu stesso hai in noi suscitato.
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LEGGI IL BRANO DEL VANGELO
Lc 14, 25-33
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro:
«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”.
Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace.
Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».
C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.
Fonte: LaSacraBibbia.net
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