Lectio Divina di domenica 28 Ottobre 2018 a cura della Comunità monastica di Pulsano.
DOMENICA «DEL CIECO DI GERICO»
Considerando il testo molto lungo, consiglio di scaricarlo in un comodo file di Word.
Nel riferire l’episodio della guarigione di Bartimeo, Marco pensa sicuramente, al di là dei Dodici, alla comunità cristiana del suo tempo, chiamata a seguire Gesù sulla via della passione, ma tanto lenta a intraprendere con coraggio questo cammino. Paradossalmente l’uomo cieco, che siede sul bordo della strada a mendicare, riesce a percepire molto meglio della folla chi è Gesù. Esprimendo la sua convinzione con ripetute grida, Bartimeo balza in piedi e lascia ogni sostegno per precipitarsi con fede verso colui che lo chiama e che sta per guarirlo. È il miracolo della chiaroveggenza della fede, che non solo salva, ma mette in moto il dinamismo della conversione. Immagine del vero discepolo e di tutta la comunità dei credenti, il cieco guarito si pone immediatamente a seguire Gesù lungo la strada. Simbolo di «coloro che stavano nelle tenebre e nell’ombra della morte» (Lc 1,79), Bartimeo diventa così il modello di tutti quelli che desiderano uscire dalla propria cecità per potersi mettere in cammino. Vedere l’amore che viene sotto il segno della croce. Vedere la dolcezza delle mani di Dio che raccolgono tante lacrime e tante morti incomprensibili.
Vedere il volto del figlio di Dio levarsi, come un sole di giustizia, sull’orizzonte dei poveri. Vedere la risurrezione già operante in tanti impulsi di rinnovamento, nella Chiesa e nel mondo. Con l’aiuto del figlio di Davide, potremo entrare anche noi nel numero degli uomini che credono, che invocano, che vedono!
Dall’eucologia:
Antifona d’Ingresso Sal 104,3b-4
Gioisca il cuore di chi cerca il Signore.
Cercate il Signore e la sua potenza,
cercate sempre il suo volto.
Nell’antifona tratta dal salmo 104 appartenente al genere didattico storico (DSt) il Sapiente divenuto orante esorta i nostri cuori, i cuori l’assemblea dei fedeli, con tre imperativi (gioisca, cercate, cercate) affinché non cessiamo di cercare il Signore che ci attende e diventiamo saldi nella fede. Il Signore poi opera sempre in modo da farsi trovare nella sua Bontà. Trovarlo è impossibile, ma allora è Lui a trovare quanti Lo cercano. Noi dobbiamo cercare «il Volto», la Persona del Signore, da cui irraggia la luce vivificante per l’eternità, senza mai stancarci.
Canto all’Evangelo 2 Tm 1,10
Alleluia, alleluia.
Il salvatore nostro Cristo Gesù ha vinto la morte
e ha fatto risplendere la vita per mezzo del Evangelo.
Alleluia.
La frase dell’apostolo per intero : «9Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non gia in base alle nostre opere, ma secondo il suo proposito e la sua grazia; grazia che ci è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità, 10ma è stata rivelata solo ora con l’apparizione del salvatore nostro Cristo Gesù, che ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’immortalità per mezzo del Evangelo, 11del quale io sono stato costituito araldo, apostolo e maestro» orienta la comprensione dell’Evangelo proclamato oggi.
Paolo annuncia che Cristo distrusse la morte e con la sua Resurrezione divenne nostro Salvatore e illumina sempre la nostra vita con la Luce divina che irraggia dal suo Evangelo della grazia. La “vocazione santa” è la chiamata alla santità di tutti i cristiani, specialmente di coloro che svolgono un ministero nella Chiesa.
Con questo racconto Marco conclude la sezione centrale del suo Evangelo (8,27-10,52); come la «sezione del pane» (6,7-8,26), che segna una svolta critica nella vicenda di Gesù, terminava con la guarigione di un cieco, così questa sezione si conclude con un miracolo analogo.
Con la Domenica XXX quell’itinerario iniziato a Nazareth sta per terminare, Gerusalemme è ormai prossima, anche gli episodi lungo la via vanno al loro epilogo, prima del grande Evento della Croce e della Resurrezione. Ci si accorge anche che il filo dell’intera trama è sotteso dalla Croce e dalla Resurrezione. Qui risalta il fatto iniziale, che con fedeltà abbiamo sempre ripreso, che il Signore dal Padre è battezzato con lo Spirito Santo e consacrato come Profeta per l’annuncio dell’Evangelo, come Re per compiere le opere della Carità del Regno, come Sacerdote per riportare tutti al culto al Padre suo, e come Sposo per acquistarsi la Sposa d’Amore e di Sangue.
Ora, lungo questo Tempo, privilegiato tra tutti gli altri dell’Anno liturgico, la Chiesa seguita a celebrare Cristo, il suo Signore Risorto, mentre è rimandata di necessità a contemplarlo in uno degli episodi della sua Vita tra gli uomini, ossia mentre insegna, o opera, o prega. Questa Domenica il Signore, la Luce del mondo (Gv 8,12) riporta la Luce della fede ad un cieco e per conseguenza gli dona di nuovo la luce dei poveri occhi spenti.
Il miracolo di Bartimeo, il mendicante cieco di Gerico, è tra le pagine più vivaci e più riuscite di Marco. La guarigione del cieco Bartimeo in superficie è una storia miracolosa, ma è anche, e in un senso più profondo, un dialogo sulla fede. Il cieco Bartimeo mostra di possedere un’intuizione profetica. La scelta del titolo «Figlio di Davide» evoca la discendenza regale di Gesù nonché le tradizioni giudaiche contemporanee su Salomone visto come mago e guaritore. Il mendicante Bartimeo qui chiede ben altro che un po’ di spiccioli («che io veda di nuovo») ed ottiene molto di più di quello che chiede («la tua fede ti ha salvato»). Bartimeo diventa in tal modo un modello di fede in Gesù e tutto fa pensare che egli accetti l’invito di Gesù a diventare suo discepolo.
La pericope dunque mette in risalto ancora una volta l’importanza che Gesù attribuiva alla fede di coloro che ricorrevano a lui per essere guariti dalle loro infermità (5,34; Mt 9,22; Lc 7,50; 8,48; 17,19).
L’episodio è riportato dai tre sinottici, ma i racconti in alcuni particolari non concordano tra loro. Ciò, come sempre, ha dato luogo a numerosi tentativi di conciliazione; ma probabilmente la soluzione più che sul piano storico e geografico, va ricercata in sede di formazione della tradizione sinottica.
Per il contesto si veda quanto detto nella XXIX Dom. Tempo Ord. B.
I lettura:Ger 31,7-9
Il cap. 31 di Geremia tratta della vicenda fatale dell’esilio del residuo del popolo di Dio, Gerusalemme e Giuda, e insieme del suo ritorno felice che il Signore alla fine della punizione elargisce al suo popolo che ama e non ha mai abbandonato.
Sono rari gli uomini che, nel momento culminante della crisi, sanno discernere la via da seguire. Geremia è uno di questi: in pieno disastro nazionale, mentre il popolo è deportato dai nemici, egli annuncia la felice conclusione della disfatta. Se il popolo resta fedele, se persevera a cercare Dio anche in terra straniera, Dio cambierà la sua prigionia in libertà, la sua solitudine in comunione: ciò che oggi il popolo semina nelle lacrime, domani lo raccoglierà nella gioia.
La sezione dei vv. 2-14 riguarda questo ritorno e la restaurazione spirituale e morale della nazione affranta dall’immane catastrofe. Il Signore proclama la sua suprema confessione d’amore nuziale, divorante e consumante, alla sua Sposa, poiché proprio della sua Sposa si tratta : «Di amore eterno Io ti amai!» (v. 3), e le procura ancora le feste nuziali tra l’esultanza e le danze delle vergini del corteo (v. 4), e la prosperità (v. 5), e la gioia delle nazioni che vogliono recarsi a contemplare Sion, la Sposa Bella (v. 6).
E alle nazioni il Signore adesso si rivolge direttamente, esortandole a esultare (Os 12,6; 65,18) per la sua nazione finalmente ritrovata, salvata, rigenerata, anzi resa «la prima delle nazioni» (Am 6,1), la capo di fila delle altre, che verranno da lei per essere annumerate come l’unico «popolo di popoli». Il Signore esorta le nazioni alla festa liturgica solenne, con suoni e canti con cui esse debbono proclamare al mondo: «Salva, Signore, il popolo tuo, il resto d’Israele!» (v. 7), la celebre «epiclesi per la nazione», che si ritrova nell’intercessione profetica, e con diversi verbi, e diventa motivo importante per il Salmista (Sal 24,22; 27,9; 28,11; 32,22; 50,20). L’epiclesi si ritrova nel Te Deum, e largamente nell’innografia delle Liturgie orientali.
E il Signore risponde manifestando la sua Volontà verso il suo popolo, verso i suoi poveri resti amati, nell’immediata esecuzione, con l'”Ecco” che annuncia sempre il prodigio dell’intervento divino. Il v. 8 perciò è grandioso: «Ecco, Io li riconduco dalla terra del settentrione», ossia dalla Babilonia (Ger 23,3; 3,8; quindi Ez 28,34), «e Io li radunerò dai confini della terra», ossia da ogni parte del mondo dove erano stati dispersi (anche Ger 3,8). E descrive nei particolari di quale “resto” amato si tratti: «E tra essi stanno il cieco e lo zoppo» (è l’eco di Is 35,5-6), «e insieme la donna gravida e la puerpera, l’immensa folla dei reduci fin qui» (v. 8).
Dopo la punizione medicinale, temporanea, la riassunzione è generosa e totale (v. 9a). Il Signore ricorda che essi erano partiti per l’esilio nelle lacrime amare della disfatta (narrato in Ger 50,4; dopo il ritorno, l’esilio è rievocato in Esr 3,13; 10,1), ma Egli adesso li riconduce nella sua Misericordia. Egli prepara per essi la via regale attraverso il deserto, che trasforma in una terra irrigata da corsi d’acqua (è l’eco attuativo di Is 35, 6-7, che diventa ancora profezia nel Secondo Isaia, Is 49,10), prepara la via sacra, piana e dritta (ancora eco di Is 35, 8, anche qui ridiventato profezia in Is 43,19; 49,11), dove nulla li ostacolerà, e nulla li farà ancora inciampare. In un Eden nuovo.
Al v. 9b si apre la rivelazione indicibile, inimmaginabile. Il Signore finalmente ha voluto diventare il Padre d’Israele (Es 4,22-23; Dt 32,6), finalmente ha realizzato in modo inevitabile, infallibile, onnipotente quanto aveva promesso in antico, che Efraim sarebbe stato il suo primogenito, il figlio suo diletto che chiama a sé dal nuovo Egitto (Os 11,1). Questa profezia si realizza in Cristo Bambino (Mt 2,15).
Il Salmo responsoriale: 125,l-2ab.2cd-3.4-5.6, SC
Il Versetto responsorio: «Grandi cose ha fatto il Signore per noi» (v. 3), canta la gioia delle gesta potenti del Signore per il suo popolo.
Il Salmo riporta nella rubrica iniziale «canto delle ascensioni», insieme con un gruppo che comprende i Sal 119-133. Questi 15 poemi probabilmente erano stati composti per i pellegrini fedeli nella “salita” a Gerusalemme, al tempio, le «tre volte» a cui erano tenuti a venirvi a fare festa tutti gli Israeliti (pasqua, pentecoste, capanne, Es 23,14-17). I 15 Salmi però erano anche connessi con le 15 parole della «benedizione sacerdotale» di Num 6,24-26, in forza della quale il Signore stesso benediceva Israele.
Il Salmista esordisce rievocando una delle maggiori tra le opere prestigiose che il Signore allora svolse per il suo popolo: ricondurre gli esiliati nella loro terra. Tuttavia questo popolo adesso è chiamato la Sion del Signore, la Sposa, segno anche visibile dell’unità dei fedeli del Signore (v. la). E questo essere ricondotti avviene sotto il simbolo di una processione sacra, trionfale, di tutti gli esuli, i quali mentre tornavano si sentivano di sognare, verbo che con altra semantica esprime l’essere e sentirsi consolati (v. 1b). Adesso si ha la medesima consolazione e la medesima processione sacra si fa tre volte all’anno in pace per recarsi a Sion onde celebrare il Signore. Il Salmista lo tiene bene presente.
Il richiamo poi si dirige alla storia. Il Salmista, che si pone tra gli esuli come reduci, vedeva allora la gioia che riempiva la bocca dei confratelli e sua, e l’esultanza che riempiva la loro lingua. Tali espressioni cariche, in parallelismo, descrivono canti e grida di gioia, i quali sono anzitutto azione di grazie e inni di lode al Signore (v. 2ab). E le nazioni che vedevano passare i reduci dovevano a loro volta esprimere un’anamnesi ammirata: «Grandeggiò il Signore nell’operare suo in favore di questi!» Parlano le medesime nazioni pagane che un tempo irridevano gli esuli con la terribile domanda “quotidiana”: «Ma il Dio tuo, dove sta?» (Sal 41,4.11; anche 113,2). Di fronte alle «opere grandi», come far crollare l’immane impero babilonese e liberare i resti miserevoli di Giuda, i pagani si inchinano. Lì perfino essi hanno visto la Venuta operante del Signore in mezzo al suo popolo, e Lo riconoscono. Così le opere del Signore hanno un effetto missionario (v. 2cd).
Il v. 3a riprende il v. 2d, e il v. 3b riprende il v.lb. Il Salmista adesso pone sulla bocca dei reduci, e quindi su quella dei pacifici pellegrini attuali, l’anamnesi delle meraviglie divine, ripetendo come accettazione propria, come azione di grazie e come inno di lode, il «Grandeggiò il Signore nell’operare suo con noi», in favore della generazione di allora e di quella presente, il che rende perennemente esultanti i reduci di allora e i pellegrini di adesso. Di fatto, ogni pellegrinaggio alla Sion santa dopo il ritorno dall’esilio sarà come il grande memoriale del «secondo esodo», con la medesima gioia del primo esodo dall’Egitto (Es 15,1-18).
Il Salmista eleva poi un’epiclesi pressante al Signore, ribaltando in un certo senso il v. la. Lì era anamnesi. Adesso il medesimo contenuto si fa invocazione epicletica. Il Signore è implorato di trasformare questo ritorno dalla prigionia (Ger 24,14; 30,3) in un raduno completo del popolo che ancora manca per riformare l’assemblea plenaria liturgica del popolo di Dio (anche Sal 122 e 124). Allora sarebbe come quando il Negeb, il deserto meridionale, in primavera è inondato dalla pioggia e dalla piena dei torrenti, e per una stagione è tutto un fiorire paradisiaco. Israele si attende la Grazia del Signore, che lo irrori per diventare la pienezza di una stagione spirituale nuova (v. 4).
Segue una considerazione che esprime fede e fiducia. Israele accetta di seminare nelle lacrime della morte, espressione che indica il cercare il Signore anche andando in esilio (Ger 50,4), per poter poi mietere nell’esultanza finale (v. 5). Soccorre qui la memoria del passato recente. Gli esuli andavano verso il loro destino piangendo lacrime di morte, ma sempre cercando il Signore, seminando così nella fede il seme che avrebbe portato frutto abbondante a suo tempo (v. 6ab). Nel ritorno però la loro gioia è totale, ed è significata dai covoni abbondanti che riportano. Questo è il segno evidente che la schiavitù è finita, che il possesso libero della terra è una realtà, che qui il lavoro è fruttuoso (v. 6cd; qui Is 9,2; 62,8; 65,21-22). Non solo, ma adesso i pellegrini che salgono a Gerusalemme per la pentecoste, portano in memoriale al Signore le prime gerbe da offrirgli in segno di azione di grazie, primizia secondo la Legge santa (Es 23,16; Dt 26,1-11) e garanzia di un futuro raccolto abbondante (qui Sal 66, un’«Azione di grazie comunitaria»). L’esultanza del popolo fedele per il suo Signore così non ha più fine.
Esaminiamo il brano
46 – «giunsero a Gerico»: percorsa da nord a sud la regione a oriente del Giordano (la Perea), la comitiva attraversa il fiume e per l’antica strada romana si dirige verso Gerusalemme, passando per Gerico.
Sin dai tempi più antichi, la strada da Gerusalemme a Gerico fece parte di un importantissimo itinerario che collegava la pianura costiera a ovest con la valle del Giordano a est, dando notevole importanza strategica alla città di Gerusalemme. In una ventina di Km la strada sale da 260 m sotto il livello del mare a 720 m sopra il livello del mare. Il nome di questa città è tra i più celebri di tutta la storia biblica, chiamata anche nell’A.T. la “città delle palme” (Gdc 3,13). Vi sono due antiche Gerico: la Gerico dell’ AT (risalente al X millennio a.C), sulla celebre collina di Tell es-Sultan, dove ancora oggi si possono ammirare i resti di remote civiltà risalenti sino all’VIII millennio a.C. Ai piedi del Tell c’è una ricca sorgente, oggi chiamata pozzo di Eliseo per l’episodio narrato in 2 Re 2,19-22.
La Gerico del N.T. si trova più a sud di Tell es-Sultan, dove il Wadi el-Qilt sbocca nella valle del Giordano. In origine era un forte costruito dagli Asmonei per difendere la strada che saliva a Gerusalemme lungo il Wadi el-Qilt; fu ricostruita in grande stile da Erode il Grande che la predilesse per il suo clima, mentre suo figlio Archelao ne aveva fatto un centro importante, dotandola di tutti gli edifici pubblici propri delle città greco-romane.
«partiva da Gerico»: l’indicazione, con la ripetizione del nome di Gerico a così breve distanza , disturba la fluidità del racconto. Lc 18,35 contro Marco e Matteo scrive: «mentre si avvicinavano a Gerico». La contraddizione da alcuni viene risolta pensando che Marco e Matteo parlino della Gerico antica e Luca di quella più recente. Secondo Lc 18,35 l’episodio di Bartimeo ha avuto luogo mentre Gesù stava entrando in Gerico. Luca colloca poi l’episodio di Zaccheo (Lc 19,1-10) dopo che Gesù è entrato in città e mentre l’attraversava. Matteo segue Marco nel mettere l’episodio fuori della città di Gerico, ma rende la sequenza più scorrevole e presenta la guarigione di due ciechi (vedi Mt 20,29-34).
«Bartimeo»: è un nome aramaico di cui lo stesso evangelista ci anticipa la traduzione greca = il figlio di Timeo. Di solito Marco mette prima il nome aramaico, poi la traduzione greca; la presente è l’unica eccezione a questa regola (Cfr. 5,41; 7,34; ecc.). Fatta eccezione per Giairo (vedi 5,22), questa è l’unica volta che Marco chiama qualcuno per nome, a parte il nome di Gesù e dei suoi discepoli unitamente a Giovanni Battista ed Erode (Antipa), fino a quando non inizi il racconto della passione. È davvero un’eccezione conoscere il nome del malato guarito nei Vangeli; Marco è l’unico a fornirci questo nome, che probabilmente doveva essere conosciuto nell’ambiente della primitiva comunità cristiana. L’articolo ”il” indica inoltre che era noto anche a chi frequentava Gerico. Ma occorre dire anche che uno chiamato «il figlio di Timeo» non è chiamato con un vero nome proprio, forse è talmente in basso nella società da essere «un coso», senza neppure la dignità del suo nome, ormai dimenticato da tutti. Mt 20,29-30 contro Marco e Luca parla di due ciechi. Molti studiosi ritengono che l’indicazione di Matteo sia più esatta, perché più rispondente all’uso orientale che vede i ciechi andare quasi sempre accoppiati. Marco, questa volta in armonia con Luca, ne nominerebbe uno solo perché l’unico conosciuto nell’ambiente per cui scriveva o da chi aveva attinto la notizia per questo suo racconto.
47 – «dire»: il verbo è necessario per indicare che il «gridare» non dipendeva da dolore o da altro sentimento, ma dalla necessità di farsi sentire da Gesù, circondato dalla folla. Una necessità per superare il brusio della folla e lo scalpitìo dei piedi, e far così intendere al Maestro la sua richiesta.
«Figlio di Davide, Gesù»: È l’unica volta che Marco riferisce questo appellativo a Gesù; è un titolo messianico che ben conosciamo ( Cfr. Mt 9,27; 12,23; 15,22; 21,9,15 ). Con la titolatura “Figlio” tre sono le definizioni applicate a Gesù dal N.T. : “Figlio di Dio”, “Figlio dell’uomo” e, appunto, “Figlio di Davide”.
Alla base di quest’ultimo c’è un rimando all’attesa messianica d’Israele che aveva come punto di riferimento l’alleanza tra il Signore e la discendenza davidica, alleanza formulata solennemente nel celebre oracolo del profeta Natan, presentato in 2Sam 7. Sulla base di questa promessa il Messia era atteso come discendente del casato di Davide e quindi poteva essere invocato come “Figlio di Davide”. Per questo negli evangeli si nota la sottolineatura riservata alle origini “davidiche” di Gesù; si pensi alla genealogia che Matteo pone in apertura del suo Evangelo (1,1).
Gesù, però, nei confronti di questo titolo si rivela piuttosto cauto e persino reticente: si legga il passo di Mt 22,41-46 in cui, polemizzando con i farisei, Gesù contesta la formula nel suo tenore immediato.
Il rischio di un’interpretazione messianica politico-nazionalistica era sempre in agguato e Cristo era attento ad allontanare questo rischio. Egli accetterà che, durante il suo ingresso trionfale a Gerusalemme, la folla esclami:«Osanna al figlio di Davide» (Mt 21,9); ma subito dopo dimostrerà come egli intendeva quel messianismo davidico salendo su un trono sconcertante, quello della croce.
Tuttavia Bartimeo nella sua condizione misera conserva grande lucidità. è un Ebreo, che attende il promesso Discendente di David, che finalmente abbia pietà del suo popolo e lo riscatti dalla sua abiezione presente. Quando senza vedere sente che sta passando «Gesù il Nazareno», comprende che il Figlio di David è giunto. Forse gli altri non vi pongono mente, ma Bartimeo perdendo la vista ha sviluppato l’udito e la memoria. In sinagoga ha prestato la fine attenzione dei ciechi alle letture della Legge santa e dei Profeti. E dai Profeti, quello grande, Isaia, quando annunciava che sarebbe sorto un Ramoscello dal ceppo abbattuto di Iesse, il padre di David, e un Virgulto, un neser, sarebbe fiorito dalla sua Radice (Is 11,1), e su Lui si sarebbe posato lo Spirito del Signore con i suoi 7 Doni (v. 2), e avrebbe riportato sulla terra le condizioni originali dell’Eden (vv. 3-10), e finalmente verso la Radice di David, che sta come Vessillo innalzato sui popoli, si sarebbero volte le nazioni, e la sua dimora sarebbe stata gloria (v. 10). Ma si sarebbero volti verso il Neser, il Virgulto della Radice, il Discendente di David anzitutto i poveri e pii del popolo santo (v. 11).
Ecco uno dei più poveri, questo cieco abbandonato e tuttavia pio e attento, che ha la mente alla divine profezie, e sta attento a chi passa, è riempito all’improvviso di un impulso nuovo nella fede antica, e in Gesù «il Nazareno», dunque il Neser!, con i suoi vivissimi occhi dell’anima, sempre accesi di ardore di fede, individua con tremenda precisione il Figlio di David, e lo invoca come tale, e “gridando” con tutte le sue forze lo supplica di avere misericordia per lui (Mc 10,47). «Gesù, Figlio di David, abbi misericordia di me» è il nucleo di quella che poi sarà la «preghiera continua» o «del cuore» in uso tra gli Ortodossi.
«abbi pietà di me!»: lo stesso Signore pietà o Kyrie eleison che si usa ancora nella liturgia. La «Preghiera di Gesù» ripetuta incessantemente dai contemplativi (Cfr. ” I racconti di un pellegrino russo”).
48 – «lo sgridavano per farlo tacere»: la «molta folla» (v. 46) sembra non sopportare il grido del “bisognoso”; alcuni forse pensano che Gesù non voglia essere importunato, altre volte si è rifiutato di operare miracoli! Per l’uso del «rimproverare» (epitiman) si veda 1,25; 3,12; 4,39; 8,30.32.33; 9,25; 10,13. Il fatto che Bartimeo non tenga conto dei rimproveri ma gridi ancora più forte è indice della sua profonda fede e fiducia in Gesù. Bartimeo infatti non si lascia zittire; è il grido dell’ultima speranza, se è il figlio di Davide colui che sta passando. Dal momento in cui ha avuto il coraggio di gridare, ora grida ancora più forte allorché tutti pretendono di chiudergli la bocca.
49-50 – «chiamatelo»: l’insistente e fastidioso gridare del cieco ferma Gesù, che tuttavia non si accosta ma dice di chiamarlo. Luca scrive invece: «ordinò che glielo conducessero» (18,40).
Gesù mostra dunque la sua autorità costringendo quelli che cercavano di zittire Bartimeo nel v. 48 (forse i suoi stessi discepoli come in 10,13) a fungere da suoi messaggeri.
«chiamano»: il presente indicativo del verbo descrive le varie voci che si levano come se tutti fossero stati sempre in questa benevola disposizione. Il verbo tharséō è stato usato in Mc 6,50 quando Gesù ha incoraggiato i suoi discepoli spaventati dal vederlo camminare sull’acqua.
«alzati»: egeírō è il verbo che sovente ha la connotazione di risurrezione (Cfr. 1,31; 2,9.11.12; 5,41; 16,6; ecc.).
«gettato via… balzò in piedi»: In due soli versetti (49-50) si contano dieci verbi, per dire l’intensità di movimento che l’evangelista concentra in questa sosta di Gesù nell’incontro con Bartimeo. È un incontro personalizzato, è una «chiamata», alla quale il cieco risponde di scatto. Questi vividi particolari sono tralasciati da Mt 20,32-33 e da Lc 18,40-41, forse perché considerati «non necessari». Anche se Matteo e Luca riescono a far risaltare meglio la dinamica teologica del racconto, essi perdono un po’ della vivacità che rende la versione marciana della storia di Bartimeo memorabile ed attraente.
«il mantello»: per presentarsi a Gesù il cieco si libera dal mantello, e non si tratta di un particolare trascurabile, richiesto dalla manovra di spostamento che deve compiere, lui che non vede. Il gesto di liberarsi dal mantello esprime qualcosa di più, se si considera ciò che segue al miracolo, cioè la salvezza e la sequela. Col mantello gettato via Bartimeo si libera del suo passato; il mantello è come un simbolo di ciò che si è e si ha: rappresenta un patrimonio che può essere dato in pegno (Es 22,25), o può paragonarsi ad una casa che si porta addosso; ma è anche il segno di una condizione di vita o d’una vocazione, come nel caso del mantello del profeta Elia raccolto da Eliseo (2 Re 2,13). A Gesù i soldati «gli misero addosso un mantello di porpora» (Gv 19,2) e, «dopo averlo schernito, lo spogliarono del mantello» (Mt 27,28). Con ogni probabilità il mantello stava sotto il poveraccio e serviva, tra l’altro, per raccogliere l’obolo; era il segno della mendicità. Il cieco Bartimeo, dunque, si presenta a Gesù senza il mantello, pronto a parlare ma anche a fare tutto ciò che il Maestro gli dirà. La sequela comporta necessariamente un lasciare qualcosa; Bartimeo, insieme al mantello, probabilmente ha scaraventato via anche le monete che aveva rastrellato in quel giorno.
51 – «Che vuoi che io ti faccia»: Cfr. 10,36 è la solita grandissima disponibilità ad ascoltare e ad accogliere tutti.
«Rabbunì»: nel testo greco leggiamo il termine originale aramaico «Rabbonì», di cui Marco, contro il suo solito, non fornisce il corrispondente greco. Titolo dato a persone stimate per scienza e autorità, deriva da Rabbi e significa «mio maestro» o anche «mio grande» ; ma nell’uso non sempre si avvertiva questa sfumatura di ossequiosità. È la medesima acclamazione di Maria Maddalena che riconosce il Signore, il Risorto (Gv 20,16).
«che io riabbia la vista»: è un miracolo degli occhi. Bartimeo era uno dei tanti ciechi, che s’incontravano lungo le strade della Palestina del tempo di Gesù, poiché la cecità era una malattia endemica assai diffusa, in modo speciale nella regione del Mar Morto. Tuttavia, la cecità ha un significato messianico nel senso che in molti testi dell’AT., come del resto nei Vangeli, ridare la vista ai ciechi costituisce un segno del tempo messianico. Gesù stesso, infatti, ai discepoli del Battista che vogliono sapere se è lui il Messia, risponde: «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista» (Lc 7,22).
Nel brano di Geremia 31,7 (la lett), che è preso dal cosiddetto «libretto della consolazione» in cui si annuncia il ritorno del popolo a Gerusalemme dall’esilio, il “cieco” è nominato per primo tra quelli che partirono nel pianto e saranno riportati tra le consolazioni.
Anche Is 35,5 indica il ritorno della vista come un segno caratteristico della venuta del Messia, quando dice: «Allora si apriranno gli occhi dei ciechi».
L’episodio giovanneo del cieco nato ci aiuta a capire meglio il significato spirituale della cecità e della vista (Gv 9,1-41).
52 – «la tua fede ti ha salvato»: La formula di Gesù è fondamentale; è come dire: Sulla base della fede tua in un certo senso tu ti sei guarito da solo. Ma la fede è dono divino, è dono trasformante. Accettare la fede e l’azione trasformante, è solo collaborare con Dio. Qui la guarigione viene effettuata senza nessun comando né contatto fisico (confrontare con 8,22-26). C’è la semplice dichiarazione di Gesù che la fede di Bartimeo l’ha «salvato» – un verbo (sṓizō) che può riferirsi a una guarigione sia fisica che spirituale (ed anche alla «salvezza»). Ricordiamo la stessa dichiarazione di Gesù nell’episodio della donna guarita dall’emorragia in Mc 5,34.
«si mise a seguirlo»: il termine scelto dall’ evangelista (akolouthéō) indica l’azione del seguire sia in senso fisico (Cfr. 3,7; 5,24; 6,1; ecc.) sia in senso spirituale, come per gli apostoli e gli altri discepoli (Cfr. 1,18; 2,14-15; 8,34; ecc.). Qui è difficile dire con sicurezza se, oltre al senso materiale (chiaramente indicato da quel «per la strada», che era poi la via per Gerusalemme), vi si possa vedere anche l’inizio di una sequela spirituale, come farebbero credere l’entusiasmo dell’interessato e il risalto dato dall’ evangelista alla sua guarigione. Di lui non se ne saprà più nulla, sparisce nel silenzio degli avvenimenti che riguardano Gesù, a Gerusalemme, dove un altro cieco, cieco dalla nascita, di cui Giovanni non ci dice il nome, sarà causa di una aspra polemica tra Gesù e i Giudei. In sinagoga, quando lo accompagnavano e di certo lo relegavano alla parete di fondo, “il figlio di Timeo” ha ascoltato la Legge santa e i Profeti e pregato i salmi. Ecco dunque un altro discepolo che ha pregato chissà quante volte:
«Poiché presso Te sta la Fonte della Vita,
e nella Luce tua noi vedremo la Luce» (Sal 35,10),
e segue la Luce verso la Vita.
Così preghiamo e incamminiamoci anche noi dietro al Cristo:
II Colletta:
O Dio, luce ai ciechi e gioia ai tribolati,
che nel tuo Figlio unigenito
ci hai dato il sacerdote giusto e compassionevole
verso coloro che gemono nell’oppressione
e nel pianto,
ascolta il grido della nostra preghiera:
fa’ che tutti gli uomini riconoscano in lui
la tenerezza del tuo amore di Padre
e si mettano in cammino verso di te.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…