Commento al Vangelo del 23 Ottobre 2018 – Monastero di Bose

I capitoli 12 e 13 del Vangelo secondo Luca raccolgono alcuni detti e insegnamenti di Gesù mentre questi era in cammino verso Gerusalemme, e rappresentano quella che alcuni studiosi hanno indicato come la “crisi della Galilea”: Gesù a un certo punto del suo itinerario, di fronte alle ostilità crescenti, si sarebbe interrogato su come continuare la missione di testimone e annunciatore del regno di Dio. È consolante sapere che Gesù viva la crisi fino in fondo! Non fugge da essa, ma permette che attraversi il suo intimo e vagli il suo cuore perché tutte le sue forze continuino a puntare all’essenziale.

Spesso noi, perennemente in crisi, cerchiamo un altrove, sogniamo – illudendoci – un nuovo posto da abitare, poco importa se fisico o metafisico, desideriamo con ardore che la crisi finisca presto e rincorriamo freneticamente un atto di magia che possa teletrasportarci in un futuro senza sofferenza né dolore. Gesù ci insegna a rimanere saldi nella crisi, ad abitare e accogliere il presente con tutta la sua nebulosità, a non avere paura (cf. Lc 12,4) e a non preoccuparci delle parole da dire o delle cose da mangiare o indossare (cf. Lc 12,11.22): “Non state in ansia!” (Lc 12,29).

Sì, l’ansia, che nasce dalla paura della morte, ci paralizza con il suo tormentoso vizio dell’affaccendamento che ci porta a mettere la nostra fiducia nelle ricchezze, a porre il nostro cuore nella pleonexía, nella cupiditas: è la logica dell’accumulo, del sempre avere e pretendere di più, è la filosofia perennemente in voga del “riposati, mangia, bevi e divertiti!” ben espressa dalla parabola dell’uomo ricco (cf. Lc 12,13-21).

Gesù si oppone con forza a questa forma di idolatria che ci ingabbia in una solitudine mortifera e ci invita a guardare gli uccelli e a osservare come crescono i gigli. Ci chiama alla libertà, alla leggerezza e a stringere le vesti ai fianchi, pronti a metterci in cammino, con le lampade accese, per affrontare anche il buio della notte che verrà. Poi attraverso un’altra parabola coniuga nella nostra vita un verbo decisivo, che non ha nulla di passivo, “aspettare”: “Siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito”.

Aspettare. Non è un tempo vuoto, non è una perdita di tempo. Non è una noiosa sala d’attesa, ma il luogo della decisione e della conversione, della vigilanza e della fedeltà alla Parola che dinamizza e mette in moto tutte le fibre del nostro essere, animati dalla speranza che la prospettiva ultima è la gioia della comunione simboleggiata dal pasto servito dal padrone.

Aspettare è un invito “a tollerare di non capire, per imparare ad ascoltare e ospitare nel corpo. Incorporare è portare umilmente al corpo ancora e ancora quello che ascoltiamo, finché l’io si stanca e allora noi cambiamo, ci apriamo al non conosciuto … Ascoltare, aspettare, ospitare nel corpo sono strumenti delicati per disincagliare e lasciar riaffiorare le radici della bellezza, una bellezza che non divide e non discrimina, che non appartiene a un’idea del bello separato dal brutto, uno sguardo che restituisce” (Chandra Livia Candiani).

fratel Giandomenico della comunità monastica di Bose

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Lc 12, 35-38
Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito.
Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli.
E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!».

C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.

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