Un racconto in prima persona di un’esperienza dall’eccezionale valore umano e spirituale: essere vescovo nella «terra santa» dell’islam, la Penisola araba, la regione in cui è nata la religione islamica, oggi conosciuta come la «terra dei petrodollari», i paesi che basano la propria fortuna sulle ricchezze del petrolio.
Da oggi è in libreria Un vescovo in Arabia. La mia esperienza con l’islam (con Simon Biallowons, Editrice Missionaria Italiana, pp. 208, euro 18,00, prefazione di Paolo Branca) di monsignor Paul Hinder, vicario apostolico dell’Arabia meridionale (Emirati Arabi Uniti, Oman, Yemen), grande conoscitore del mondo islamico e pastore d’anime in una regione dove la presenza cristiana, attraverso la forte immigrazione dall’Asia, sta vivendo una nuova primavera.
Sono questi i due binari su cui scorre l’avvincente testo di monsignor Hinder, residente ad Abu Dhabi: da un lato il racconto di cosa significa essere un cattolico nella terra santa dell’islam, con le sfide quotidiane di non poter vivere pienamente la libertà religiosa, ma solo di culto, nonché il resoconto del dialogo e del confronto quotidiano, a vari livelli – personale, istituzionale, accademico –, con il mondo islamico.
D’altra parte, mons. Hinder si sofferma nel libro a descrivere la realtà multiculturale e multietnica di Chiesa di cui è responsabile. La forte immigrazione che ha portato centinaia di migliaia di asiatici – soprattutto dalle Filippine e dall’India – a lavorare nei Paesi del Golfo ha comportato la rinascita del cristianesimo proprio in zone dove il Vangelo era arrivato con le prime comunità cristiane, per poi essere soppiantato dal nascente islam. Ad oggi, afferma Paul Hinder, nei Paesi del Golfo dove egli è vescovo (Emirati Arabi Uniti, Oman e Yemen) si contano circa 1 milione di cattolici, concentrati nella stragrande parte negli Emirati. Un numero, tra l’altro, in forte crescita, vista la forte immigrazione dall’Asia. I cattolici nel Golfo rappresentano il 50% di tutti i cattolici del Medio oriente: nel vicariato dell’Arabia meridionale vi sono fedeli di oltre 100 nazioni diverse. E la frequenza religiosa ai riti è molto alta, perché nella chiesa filippini, indiani, srilankesi, pachistani trovano una seconda famiglia. Come nella parrocchia di St. Mary a Dubai, considerata con i suoi 300mila fedeli la parrocchia più grande del mondo.
Paul Hinder ha una posizione articolata sul tema del dialogo con l’islam. A tal proposito afferma: «Il dialogo con l’islam è una via obbligata. Sono convinto che senza dialogo tra cristianesimo e islam la convivenza nel nostro mondo globalizzato non potrà funzionare bene. Qui nel Golfo conosciamo bene le difficoltà che si frappongono a tale dialogo. Non senza ragione evitiamo il termine di “dialogo interreligioso” e usiamo piuttosto “dialogo tra le fedi”». Alieno da ogni irenismo, Hinder sottolinea: «Nei nostri colloqui con i musulmani non siamo sullo stesso piano. Un colloquio senza padrone, nel senso del filosofo Jürgen Habermas, qui non ha luogo. Questo può e deve essere detto in modo chiaro ed esplicito».
Sulla questione molto «calda» in Europa della costruzione di moschee, Paul Hinder pronuncia parole chiare: «Deve diventare normale che lavoratori e studenti musulmani abbiano la libertà di vivere la loro tradizione e la loro identità religiosa. E ciò in un modo che incoraggi la sensazione che questo non avviene perché noi concediamo un favore ma perché è un’ovvietà in senso umano. L’Europa non dovrebbe puntare il dito e poi agitare il pugno: “Se noi non possiamo costruire da voi le nostre chiese, voi non potete costruire qui le vostre moschee”. La politica dell’occhio per occhio non serve a nulla. Vietare le moschee non fa sorgere le chiese in Arabia Saudita. La tolleranza non deve essere ridotta a strumento di pressione. Questa tattica la riduce a un’assurdità».
Mons. Hinder denuncia senza mezzi termini le disumane condizioni in cui sono costretti i lavoratori immigrati nei Paesi del Golfo: «Vivono tutti in moderne gabbie mentre costruiscono le torri di lusso per i locali». Questo non gli impedisce di essere altrettanto critico con l’Occidente, che spesso difende i diritti umani solo a parole: «Il fatto che stati come la Svizzera e la Germania mantengano strette relazioni economiche e di cooperazione con l’Arabia Saudita mostra che lo sdegno non produce risultati. I soldi battono la fede».
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PARTI SCELTE DAL LIBRO
In Arabia Saudita: non poter essere quel che si è
«Siamo sul volo per Riyad. Stiamo per immergerci in un mondo dove non possiamo essere chi siamo, perché loro non ci vogliono per quelli che siamo. O, meglio, rifiutano totalmente quel che siamo davvero. Tutto ciò che mi caratterizza come persona, il fatto che sono prete, la mia fede, le cose più importanti nella storia della mia vita e dunque della mia identità: tutto ciò deve rimanere nascosto e negato. Là verso dove sto volando non posso essere come sono, né quel che sono. Non in pubblico, almeno. Capii d’un colpo che cosa davvero significa vivere in queste terre. Mi inquietò e mi rese triste». (p. 128)
No al cliché «cristiano perseguitato/musulmano persecutore»
«Il gusto per il panico, che in questo momento sembra essere in voga in Europa, è pericoloso. L’eccesso di semplificazione e il bisogno di individuare fronti contrapposti ben chiari fa sì che gran parte della popolazione veda solo il musulmano cattivo e aggressivo da un lato e il povero cristiano perseguitato dall’altro. È una rappresentazione che fa un grave torto a tutti quei musulmani che qui ci aiutano, che mettono una buona parola per noi, che si impegnano con vigore al nostro fianco». (p. 153)
Il coraggio che i cristiani possono imparare dai musulmani
«La maggior parte dei musulmani non si fa alcun problema a srotolare il tappeto e a dire la preghiera da qualche parte in un angolo, anche bene in vista. Nella cultura araba è assolutamente normale. Da noi, invece, quasi ce ne vergogniamo. E allora mi chiedo se a noi non manchi ormai il coraggio. E se è vero che a noi manca il coraggio, allora dovrebbe esistere un contesto di ovvietà in cui noi possiamo dire: non ti voglio ferire, ma questo è il mio mondo, accettami per quello che sono». (p. 158)
Meglio un’Europa di moschee che una in preda al relativismo
«Un giorno mi trovavo in Africa. Un mio confratello ha detto: “Si parla di islamizzazione e cose simili. Ma io preferisco di gran lunga un’Europa islamizzata a un’Europa senza religione”. Io sul momento ebbi un sussulto, ma fui costretto a dargli ragione. Anch’io preferisco un’Europa islamizzata a un’Europa che dimentica o, peggio, nega le sue radici religiose. Preferisco Maometto e le moschee all’ateismo e al relativismo». (p. 161)
I musulmani odiano l’Occidente? Una fake news
«Il “noto odio dei musulmani per l’Occidente” è una leggenda che viene strumentalizzata a fini politici. Molti musulmani guardano come prima con ammirazione a molte delle cose conseguite in Occidente e vorrebbero vederle realizzate anche nei loro paesi. Parlo del rispetto dei diritti umani e della democrazia. (p. 162)
Paul Hinder, Un vescovo in Arabia. La mia esperienza con l’islam, con Simon Biallowons, Editrice Missionaria Italiana, pp. 208, euro 18,00, prefazione di Paolo Branca, in libreria dal 13 settembre
L’AUTORE
Paul Hinder (1942), di nazionalità svizzera, è il vicario apostolico dell’Arabia meridionale (Emirati Arabi Uniti, Oman e Yemen). Frate cappuccino, ha studiato diritto canonico e teologia in Germania. Nel 2003 è stato nominato vescovo ausiliare della Penisola araba e nel 2005 ha assunto l’incarico di vicario apostolico. È una delle voci più importanti della Chiesa cattolica nel dialogo con l’islam.